La prima volta che ho messo piede in India è stato per il viaggio di nozze.
Ero stata due anni prima in Tibet e per rientrare a casa ero passata per Kathmandu in Nepal, innamorandomene perdutamente. Una volta conosciuto Ugo, il santo che nel giro di un paio di mesi è poi diventato mio marito, ho espresso il desiderio di tornare a visitare uno dei più bei paesi che mai avessi visto, il Nepal appunto. E così è stato per venti giorni a cavallo tra dicembre 92 e gennaio 93, per il nostro viaggio di nozze. Al rientro dal Nepal, visitato con lo zaino in spalla, abbiamo fatto tappa a Delhi per tre giorni.
In questo frangente, poco più di 23 anni fa, ho conosciuto per la prima volta la polizia indiana: al controllo passaporti dell’aeroporto di Delhi siamo arrivati senza visto!
Per capire il motivo per il quale non ci facessero procedere c’abbiamo impiegato un bel po’ di tempo, data la lingua dei poliziotti. Una volta scoperto, siamo stati invitati a prendere posto in una delle sale d’aspetto per trascorrerci i tre giorni che, nella nostra mente, avrebbero dovuto essere in giro per la città.
Avendo viaggiato moltissimo con il mio papà ho appreso e fatto mie alcune regole di sopravvivenza che per nulla al mondo sarei disposta ad ignorare; tra queste quella di non abbandonare mai, mai, ma proprio mai il passaporto. I poliziotti indiani ci stavano proponendo di lasciare loro i documenti per entrare in territorio indiano e restituirceli dopo tre giorni. Tutto questo accadeva più di venti anni fa quando internet e telefonini non erano ancora entrati nella vita dei comuni mortali. Io non volevo sentirci, Ugo invece ci sentiva eccome!
Ecco quindi il primo contrasto tra neo moglie e neo marito. Molliamo le nostre identità in mano a questi indiani tutti uguali tra loro che non parlano una parola di inglese o restiamo tre giorni accampati nell’aeroporto di Delhi? Sentivo la voce di mio padre che ripeteva “non mollare mai il passaporto” e avevo di fronte l’uomo che mi aveva convinta a compiere il grande passo della vita che, con gli occhioni azzurri mi supplicava di mollare il mio libretto rosso in mano al baffetto con i bottoni della camicia pronti ad esplodere e a colpire come un proiettile.
Posso affermare con certezza che questo è stato il secondo vero grande gesto d’amore verso Ugo (il primo è stato sposarlo); in cambio dei passaporti abbiamo ottenuto un manoscritto che, in caso avessimo avuto bisogno, sarebbe servito tanto quanto la carta di una caramella gettata a terra. Strappato l’angolo di una pagina di blocco note i poliziotti ci hanno fatto sopra un paio di righe di cornicette come quelle che facevo alle elementari per la mia maestra Barbara. La scrittura indiana è davvero illeggibile e assomiglia a tanti disegni tondi messi in fila. Avrebbero potuto scriverci “ambarabàciccicoccò” che per noi non sarebbe cambiato nulla.
Ricordo benissimo gli occhi della receptionist dell’albergo quando, facendo il check in, come documento d’identità abbiamo offerto il foglio di cornicette.
Abbiamo girato Delhi per tre giorni come due colombi durante un periodaccio per la città. Qualche mese prima avevano fatto saltare in aria una moschea (Ayodhia) provocando decine di morti. Ovunque c’erano posti di blocco e in ogni luogo andassimo ci sentivamo i fucili puntati addosso. Sopra gli edifici dei sacchi di sabbia formavano delle torrette dietro le quali si nascondevano dei poliziotti armati.
Ma eravamo talmente innamorati che il pezzetto di carta strappato che ci portavamo in tasca, non ci disturbava per niente e ci siamo goduti Delhi in maniera indimenticabile. Quasi 20 anni dopo ci sono tornata venendo a casa da Daddy’s Home con le due creature che abbiamo messo al mondo , rimanendo sorprendentemente ancora sposati.
Dopo tutti questi anni Delhi è peggiorata perché si è riempita di macchine e moto rumorose e pericolose. La circolazione è caotica, non esiste un ordine in quello che si svolge tutto attorno, la puzza di urina è persistente e i miserabili affollano i marciapiedi. Insomma dopo un paio di giorni viene voglia di scappare.
E’ anche vero che nel 1992 non avevo ancora toccato con mano le cicatrici sul corpo dei bambini torturati poco prima di essere abbandonati lungo le rotaie.
Non avevo ancora preso in braccio e coccolato Alex, dopo essere stato recuperato dalla tazza del gabinetto di un treno. Non avevo ancora incontrato Aria, con gli avambracci spezzati e intere aree di cuoio capelluto strappato dai parenti che l’avevano in carico.
Questo aspetto di India, quando mi sono sposata, non mi sfiorava nemmeno il cervello e giravo per la città incuriosita e affascinata, per nulla demoralizzata.
Vent’anni di vita mi portano a non desiderare di tornare a Delhi ma di tornare a Daddy’s Home a Gannavaran, piccolissimo villaggio a qualche decina di chilometri da Vijayawada, nell’Andhra Pradesh, appena possibile per riabbracciare tutti e continuare nella mia semplice opera di volontaria. Cerco l’India in ogni viaggio a Daddy’s Home e la trovo negli occhi dei bambini.