Ho una certa propensione a trattare, almeno così si parla di me in casa e per questo vengo “usata” quando usciamo in missione spese. In realtà ho più faccia tosta di altri pur illudendomi di avere quella sensibilità sufficiente a comprendere se e quando sia opportuno abbattere il prezzo. Mi spiego: non sono una strozzina e ho una mia etica. Questo giusto per mettere a tacere eventuali commenti che sento già come uno soffio sul collo. Quindi, è vero che tratto e abbatto i prezzi, è vero che arrivo e porto allo sfinimento, ma ragazzi, in India se non tratti sei un fesso!
Ecco, questo è il motivo per cui mi trovo spesso immersa in pensieri e analisi profonde del soggetto umano, professionalmente inserito nella figura del “commesso”, nel pieno di una trattativa o di un acquisto in India. Direi più precisamente a Vijayawada. Quasi compiendo un viaggio fuori dal mio corpo la mia concentrazione si focalizza sul mio interlocutore per cercare di capire quali dinamiche mentali si stiano compiendo nella sua testa.
Parto dall’Italia sempre più spesso con alcune centinaia di euro da spendere, frutto di donazioni da parte di amici e conoscenti. Quando la cifra supera un certo limite preferisco affidare l’ammontare all’ufficio di Care&Share e seguire il progetto per cui si è creato il fondo, come l’impianto per riscaldare l’acqua della Babies Home con i pannelli solari o la casa di Piera. Anche per evitare di essere accusata di esportazione di valuta all’estero, dati i tempi.
Quando gli euri da spendere sono di qualche centinaio me ne occupo di persona e ci perdo ogni volta la vita. Perché in India si fa fatica anche a spenderli i soldi!
Non vale la pena che io acquisti in Italia oggetti che in India trovo a costi molto inferiori. Inoltre, mentre il trasporto in termini di peso del bagaglio dall’Italia non mi ha mai dato pensieri, una volta arrivata in India, per i voli interni, invece, mi fa rischiare la galera. Perché dover pagare la multa per poter trasportare un borsone di biberon, ciucci e tettarelle destinati ai neonati di un orfanatrofio, mi pare una bestemmia. Nello spiegare ciò, implorando una distaccata e fredda hostess di terra, ho compreso il senso di voler colpire in pieno viso con un pugno un essere umano. Se non l’ho fatto è perché mi rimane ancora un po’ di sale in testa e perché sarei abbandonata seduta stante da mio marito, noto gentiluomo tollerante .
A Vijayawada si può reperire ogni genere di mercanzia, basta sapere dove cercare. Quello che però è davvero faticoso, è fare una commissione entro un ragionevole spazio temporale.
L’acquisto degli specchi per i bagni di una delle case dei ragazzini, rimarrà per sempre l’emblema dello shopping impossibile. E’ il nostro primo anno e siamo così pieni di entusiasmo da illuderci di poter acquistare un paio di decine di specchi da installare sopra ad ogni lavello dei bagni dei ragazzi.
Lo scopo è di offrire loro l’opportunità di guardarsi i denti prima e dopo la spazzolata mattutina.
Non è semplice spiegare all’autista Kishore che vorremmo andare da uno che fa specchi, però in qualche modo e in molto tempo ci riusciamo. In effetti siamo in una rivendita di specchi con laboratorio sul retro. Siamo accomodati davanti alla scrivania del proprietario con tanto di ventilatore che soffia ad intermittenza, e iniziamo a spiegare la diavoleria pazzesca che intendiamo ordinargli: 18 specchi rettangolari dimensione di un foglio A4 da attaccare alle pareti.
A parte la natura dell’ordine, superiore ad ogni sua aspettativa, è la totale non disponibilità a comprendere che lo vorremmo subito da portare con noi in orfanatrofio, in modo da essere sicuri che vengano appesi nei posti corretti, che ci lascia esterrefatti. Troppi specchi in un ordine solo rendono la trattativa difficile. Bisogna aspettare almeno 15 giorni, quando ormai siamo già a casa. Va bene, consegnateli al tal dei tali, fra due settimane, al resto ci penseremo noi, quanto dobbiamo pagare? Non è possibile sapere oggi per allora il prezzo, il vetro potrebbe subire delle variazioni importanti. Mah! Mai sentita una cosa del genere, parlassimo di oro o di petrolio, capirei, ma stiamo parlando di vetro. E soprattutto ne stiamo ipotizzando il valore con due settimane di anticipo, non due anni, disposti anche a versare qualche rupia in più, pur di arrivare ad una conclusione.
Non c’è nulla da fare; nemmeno con i soldi sulla scrivania, senza nessuna trattativa per abbattere il prezzo, riusciamo a concludere l’affare e ce ne torniamo in orfanatrofio senza specchi. Ricordo con velato imbarazzo, Ugo e le ragazze che mi supplicano di mantenere la calma e di non colpire l’uomo degli specchi. Io divento davvero molto pericolosa in questi frangenti.
Anche l’acquisto dei pannoloni, lo scorso Natale, ha richiesto una buona dose di autocontrollo. Ho circa 250 euro da spendere e alla Babies Home scarseggiano i pannolotti. Perfetto, mi dico. Andiamo in città e li acquistiamo. Si tratta di portarci via un’intera scaffalatura del supermercato. Diverse misure, diversi marchi, quindi diversi prezzi e diverse promozioni. Un incubo!
Abbiamo la bellezza di 4 commessi che ci servono, ognuno per una fase diversa del processo: uno parla, uno guida il carrello, uno tira giù la merce dallo scaffale e uno tratta. In più abbiamo i nostri accompagnatori, i ragazzini, che ci aiutano con la traduzione dall’inglese al telugu, facendo un bordello pauroso.
Innanzitutto, come tutti sanno, il cenno della testa con ondulazione laterale sta a significare “affermativo”, se però l’ondulazione è di carattere meno sussultorio, il significato è “non so”. Per il no non esiste scuotimento di testa e nemmeno l’affermazione verbale, perché il commesso indiano non dice mai di no, ti propone sempre qualcos’altro , di tutt’altra natura che nulla ha a che fare con l’oggetto che vuoi acquistare. Anche l’espressione del volto è molto importante, non viene mai abbandonato lo strano sorrisino che inarca le labbra e addolcisce lo sguardo, ma che non mi permette di capire se i pannoloni ci sono o non ci sono, o meglio, se me li vogliono dare o no.
Finalmente con due carrelli straripanti mi indicano di scendere al piano inferiore, loro con l’ascensore noi a piedi. Le casse sono un ammasso di gente in attesa di pagare, che non sa cosa sia una fila. Quando arriva il nostro turno, oltre ai soliti 4 commessi, ci raggiungono altre tre personalità fondamentali per l’acquisto: quello che preme i tasti sulla cassa, quello che inserisce la merce nei sacchetti e quello che prende il denaro. E qui arriva il bello: vorremmo pagare parte della merce con la carta di credito. Apriti cielo! Serve un’altra figura professionale addetta a questo genere di procedura. Insomma, devo per forza farla breve anche se è lunga da morire. Riusciamo finalmente a pagare e a conoscere un’altra bella quantità di personale e a superare le casse con i carrelli strapieni e il cuore gonfio di gioia, ma non è finita. C’è il solito, immancabile, astuto e serissimo poliziotto all’uscita che deve verificare la corrispondenza tra ciò che ho nei carrelli e ciò che ho pagato. Ormai non ci casco più, ma le prime volte mi sono ritrovata a cercare ovunque lo scontrino lungo come un lenzuolo, ficcato in fretta in qualche tasca sbadatamente. Se non esibisco lo scontrino tutto quello che ho fatto fino a quel momento andrà perduto e io resterò senza i miei pannolotti. Ora non vorrei sembrare eccessivamente polemica ma il controllo scontrino/merce è una barzelletta e come sempre, in India, qualsiasi pezzo di carta finisce timbrato e appallottolato pronto per essere gettato a terra in mezzo alla montagna di rifiuti che occupa ogni spazio libero della strada.
Come mi tornano alla memoria certi racconti e certe considerazioni che sentivo fare da Carol, durante la cena a fine giornata in Daddy’s Home! A volte mi sembrava spietata, a volte sarcastica, molto spesso rassegnata quando si parlava di questo strano modo di vivere e di affrontare la vita da parte della gente del villaggio e della città. Ma alla fine ti ci abitui, prendi le misure e adatti i tuoi tempi e i tuoi metodi ai loro tempi e ai loro metodi. Basta crederci e non demordere. Siamo diversi e spesso mi sento fuori luogo, addirittura invadente, nel pretendere la perfezione secondo il mio calibro, la puntualità secondo il mio orologio, la pulizia secondo la mia educazione. Dopotutto io qui ci resto solo qualche settimana all’anno, come posso pretendere che mi seguano e mi ascoltino quando poi salgo in un aereo e torno alla mia comoda vita frenetica, nevrotica e metodica?
Vi adoro commessi indiani perché con il vostro dondolio del capo mi illudete di aver fatto l’affare, mi fate fare la figura della donna tutta d’un pezzo, quando in realtà l’affare lo fate sempre voi e appena quella donna tutta d’un pezzo svolta l’angolo vi rotolate a terra dalle risate.
E’ un teatrino al quale decidiamo di partecipare, ciascuno nella propria parte, pur di giungere all’obiettivo finale che è il bene dei bambini di strada, vittime di un sistema incomprensibile e volutamente complicato.