A Natale scorso (2015) arrivo a Daddy’s Home con tutta la famiglia. Si tratta di un viaggio breve che affronto con maggiore leggerezza rispetto agli altri, proprio perché durerà solo una settimana. Di solito vado in orfanotrofio a fine febbraio per trascorrerci almeno due settimane. So che possono sembrare poche, ma se ci stai a lavorare sul serio sono sufficienti per farti tornare a casa stravolta. Questa volta ho pochi giorni e sono di nuovo accompagnata dalle mie due figlie, è la loro terza volta in orfanotrofio. Mi sento più forte grazie alla loro presenza. Ho senza dubbio due valide compagne, che mi conoscono bene e che sanno che quando c’è da lavorare con me non ci si ferma facilmente.
Babies Home è particolarmente affollata. Ogni volta trovo qualcosa di cambiato nella gestione della casa per cui ho bisogno di tempo per adattarmi e reinserirmi nel lavoro. Le nurses sono quasi tutte nuove, ne conosco forse tre o quattro, mentre le altre hanno volti nuovi. Quelle che mi hanno già conosciuta mi accolgono con affetto così che riesco ad interagire con loro senza indugio, anche se la lingua è un inglese raffazzonato. Mentre quelle che non mi conoscono mi guardano con diffidenza. Sono un’intrusa e probabilmente una possibile spia che tiene sotto controllo il loro operato. Per alcune sono semplicemente una delle tante volontarie che nell’arco di un anno appaiono e scompaiono a Daddy’s Home.
Ci sono tutte le culle occupate da minuscole creature che dormono. Quanto dormono i neonati qui a Babies Home! Sono radiocomandati. Piangono solo se ritardi a infilargli il biberon in bocca. Poi, ruttino e giù in culla. D’altronde chi ha voglia di farli giocare e interagire con il mondo? Vorrai mica che si sveglino e decidano di trascorrere qualche ora a contatto con il mondo circostante? Facciamoli dormire, arrotoliamoli dentro a questi teli stretti e facciamo dondolare le loro culle, che solo a vederle quanto si scuotono mi prende il mal d’auto.
Le nurses sono brave ragazze, chi più e chi meno. Ce ne sono di fisse che lavorano proprio per Daddy’s Home e ce ne sono di molto giovani che vengono a fare qualche mese di tirocinio, per poi tornare a scuola a studiare. Hanno una dolcezza con i bambini che è davvero sincera. Solo che non hanno quel modo di pensare a lungo termine tipico della nostra mentalità. Per esempio non lasciano una scorta di pannolini vicino al fasciatoio, in modo che quando devi cambiare un piccolo non te lo devi portare in giro per il piano in cerca del pannolino pulito. Ogni volta che cambi un piccolo di solito sei abbastanza di fretta perché anche lì quando la fanno la fanno fino al collo. Bene, quando stai reggendo il bimbo per le gambine e stai facendo di tutto perché non si sporchi la maglietta, cerchi il pannolino pulito e non c’è! Non ce n’è neanche uno! Sono tutti stipati nella stanza magazzino, alla quale arrivi dopo mille acrobazie per schivare tutti i piccini a terra che ti si aggrappano alle gambe per giocare. E tu, con il neonato in mano, e con tre scimmiette attaccate alle caviglie vai a recuperare un intero pacco di pannolini. Ecco questa è una di quelle cose che, fin dalla prima volta, mi hanno lasciata talmente perplessa da immaginare che dietro ci sia un motivo, un validissimo motivo, che a me non è dato di conoscere.
Amanda non è tra i neonati che trovo in Babies Home eppure avevo saputo che era arrivata una bimba molto prematura. Quando chiedo informazioni mi dicono che è ricoverata nell’ospedale pubblico di Vijayawada. Chiedo di andarla a vedere anche per avere un’idea di come sia un ospedale pubblico in questa città. Ho bisogno di calarmi sempre nelle situazioni per rendermi conto di come vadano le cose e questo mi porta spesso a scontrarmi con aspetti della realtà che preferirei non conoscere.
L’ospedale governativo ha un cortile d’entrata immenso pieno di gente. Chi è seduto per terra, chi sta in piedi, chi da solo, chi in compagnia, tutti nel cortile ad aspettare. Mi fanno entrare direttamente nella sala d’aspetto del reparto di terapia intensiva per neonati e già qui il pugno mi arriva dritto allo stomaco. Entro in una stanza sporca e squallida, dove ragazze bambine dagli occhi svuotati dal dolore e dallo shock mi squadrano dalla testa ai piedi. Sono bambine che non possono avere più di 14 o 15 anni, ma che in un anno ne hanno compiuti quattro per diventare maggiorenni e sposabili senza problemi per la famiglia. Hanno tutte la stessa identica espressione in viso. Seppure mi osservino non mi guardano. Hanno lo sguardo tipico di chi ha vissuto qualcosa di insopportabile. Io non posso dire se l’insopportabile sia il dolore del parto o di quello che hanno subito per rimanere gravide. Io ho visto occhi persi e privi di forza. Hanno tutte un colorito smunto, pur essendo per la gran parte scure di carnagione, mi appaiono pallide. Con le occhiaie sotto gli occhi e un disinteresse totale per la loro creatura. Non riescono nemmeno a tenere in braccio il ragnetto che hanno messo al mondo. Lo so che posso sembrare cinica, ma io i bambini che ho visto quel giorno li ho visti tutti somiglianti a tanti ragnetti, a 4 zampe anziché 8. Per fortuna ad accudirli ci pensano le nonne. Donne pratiche, dai gesti sicuri e diretti. Chissà quanti figli hanno tirato su nella loro vita. Sì, ma la loro vita è fatta su per giù di trent’anni. Sono nonne giovanissime esperte e decise. Prendono il ragnetto e lo imboccano con un cucchiaino di ferro dal quale fanno cadere gocce di latte raccolto dalla figlia-madre stravolta. Non ci sono tiralatte, sterilizzatori, garze sterili o cose simili. Tutto è appoggiato a terra tra piedi scalzi e sottane lunghe fino al pavimento. Per fortuna qualcuna dimostra di conoscere l’uso della seggiola e vi ci appoggia borse piene di stracci. Tutte restano accovacciate a terra, qualcuna si stende e schiaccia un pisolino. L’unica cosa che non sento, non perché sia sorda, che lo sono, ma perché proprio non c’è, è il pianto dei neonati. Ce ne fosse uno che frigna! Nulla. I ragni sono esseri nudi e privi di reazioni. Qualcuno inghiotte qualche goccia di latte, molti la lasciano correre in rigagnoli bianchi all’angolo della bocca.
Per fare rifornimento di latte le nonne spremono il seno delle mamme bambine, senza scrupolo, come fossero mucche. Fanno uscire questo zampillo di latte mirando il bicchiere in metallo senza mai lavarlo. A volte spostano lo straccio di veste che la mamma bambina tiene per coprire il seno e senza nessuna forma di tenerezza avvicinano la testina del ragnetto affinché si attacchi a succhiare. Anche in questi gesti noto la disinvolta maestria delle nonne e la completa sottomissione delle mamme bambine. Le puerpere indossano tutte una orribile cuffia in filato sintetico dai colori terrificanti, potresti pensare che è di lana ma è proprio sintetica da scintille, legata sotto il mento. E’ uno dei capi di vestiario più mostruosi che io abbia mai visto in India. Addosso a ragazzine sgomente sembra ancora più imbarazzante. C’è un caldo da sciogliersi e loro hanno il capo e le orecchie coperte da questo berretto orrendo. Serve a proteggerle dallo spirito maligno! Io quello spirito me lo sono beccato tutte due le volte che ho partorito e l’hanno chiamato depressione post partum. Loro lo chiamano spirito e lo tengono lontano coprendo le orecchie dopo aver partorito . Perché è proprio nelle orecchie che si infila il maledetto e le fa andare fuori di testa. Il rischio è che tornino a casa senza voler accudire il bambino, che siano tristi e non vogliano più essere avvicinate da colui che le ha ingravidate e che non riescano ad allattare sprecando denaro per il latte artificiale.
Trascorro tutta la mattina cercando anche di scambiare qualche parola con le donne che mi circondano ma è davvero difficile. Alla fine mi limito a grandi sorrisi e a tante foto scattate con il telefonino. Non ce n’è una che sia senza cellulare e per loro tornare a casa con le immagini che le immortalano assieme ad una straniera bianca, trovata in ospedale, è senza dubbio motivo di grandi chiacchierate e risate con il resto della famiglia.
Di Amanda riesco a scorgere solo il fagotto di pannolino che la riveste. E’ dentro una culla illuminata dalle luci blu che la riscaldano. Tutto sommato al di là del vetro il reparto sembra pulito e moderno. Le incubatrici sono tutte occupate e il personale indossa cuffie, mascherine e copriscarpe prima di avvicinarsi ai piccoli pazienti. Peccato che ogni tanto qualche uomo apra la porta con superbia ed entri senza nessun tipo di protezione. Apparterrà senz’altro a chissà quale casta superiore a quella delle infermiere, tale da renderlo evidentemente non contaminante, privo di virus e sterile fin dalla nascita.
Amanda mi viene data in braccio avvolta in un telo sgualcito e quasi mi scappa. E’ talmente piccola che non so come reggerla e la riconsegno subito alla ragazza che mi ha accompagnata all’ospedale. Cerco di cambiarle il pannolino ma lascio perdere perché sollevarle le gambe prendendola dai piedi mi sembra troppo pericoloso. Temo quasi di staccarle i piedini da quanto sono sottili le caviglie. A guardarla bene le caviglie sono sottili tanto quanto le cosce.
Io ho due figlie e la più piccola, Angelica, quando è nata sfiorava i 4 chili ed era lunga 54 centimetri. Un gigante di bambina. Le sue cosce avevano già due rotolini di ciccia e la pancia era bella tonda. E’ inevitabile paragonare Amanda al colosso che ho partorito vent’anni fa.
La piccola Amanda è stata raccolta appena nata, prematura, da un cumulo di spazzatura. Pesava 600 grammi. Tutto questo è successo tre mesi prima che io la prendessi in braccio. Amanda dopo tre mesi pesa milleduecentocinquanta grammi. Ha il segno in mezzo alla fronte di una sigaretta spenta. Questo tipo di cicatrice è davvero molto frequente nei bambini poveri indiani, come frequenti sono i segni di percosse e di maltrattamenti di ogni genere.
L’infermiera dell’ospedale, simpatica come l’ortica, mi comunica che posso portarmi via Amanda. Sono spiazzata. Non sono venuta per portarla a casa voglio solo vedere come sta. Ho un’ora di strada da fare per tornare a Daddy’s Home, c’è traffico e rischio di perderla sotto il sedile se il pazzo di autista fa una delle sue solite inchiodate. Guardo la mia accompagnatrice e cerco in lei una risposta. In realtà l’infermiera non sta aspettando una risposta ma qualcuno che firmi la carta e che si porti via uno dei ragni per liberare un’incubatrice.
La mia accompagnatrice mi fa capire che Amanda comunque starà sempre meglio accudita in Babies Home che in questo reparto, per cui avvolgo la creatura e mi incammino lungo il corridoio. Facciamo scorta di latte per il viaggio e saliamo in auto.
Devo confessare una cosa. Lungo la mia permanenza in sala d’attesa, mentre cerco di creare un minimo di conversazione con le nonne, visto che le mamme bambine sono in catalessi e non mostrano nessun segno di interazione con il resto del mondo, mi vengono offerti almeno tre bambini. Mi vengono proprio messi in braccio dalla nonna di turno, che nemmeno si preoccupa di guardare se alla mamma bambina, che è la sua bambina, interessi l’intenzione di disfarsi del pargolo. Non riesco nemmeno a prenderne in braccio uno da quanta paura ho che queste se ne vadano a gambe levate, lasciandomi con un fagotto in mano. In realtà non c’è proprio questo rischio perché senza scambio di denaro il fagotto non si molla!
Il viaggio fino a Daddy’s Home è tranquillo e Amanda non fiata. In Babies Home le nurses sono già state allertate e la miniculla è già pronta nella stanza più piccola. Io parto il giorno dopo e di Amanda ho notizie solo via messaggi. Oggi pesa due chili e duecento grammi e sta bene. Anche lei come Alex, Stella, Melody e tantissimi neonati portati nella Babies Home di Care & Share, è uno dei miracoli di Daddy’s Home. E io credo nei miracoli.