Volevo dirti cara Dina compagna di avventura che mi mancherai quest’anno. La vita è bizzarra, dobbiamo prenderla come viene. Hai un po’ di India adesso nel cuore e so che appena potrai tornerai a Daddy’s Home.
A febbraio dell’anno scorso conosco Dina per la prima volta. E’ la sua prima esperienza e accompagna Erminio, collega di Ugo, che invece a Daddy’s Home ci è già stato. Dina è una donna discreta e molto semplice, pur avendo un portamento elegante grazie a due gambe lunghe e magre che le invidio tantissimo. Entriamo subito in sintonia e fin dal primo giorno iniziamo a lavorare come somari. E’ bello incontrarsi in situazioni del genere e maturare la conoscenza giorno per giorno, in mezzo alla polvere e ai cumuli di vestiario arrivati in orfanotrofio con il container. Riordiniamo ogni scatolone, piegando abiti grandi e piccoli da destinare alle varie case. E’ un lavoro massacrante soprattutto quando lo fai con il caldo umido e le mosche che ti tormentano. Ma è da fare sennò tutto ciò che viene donato non arriva a chi ne ha bisogno.
E’ difficile la distribuzione dei capi di vestiario perché alla fine scontenti sempre qualcuno. Ti sembra di averne una quantità immensa e invece i bambini sono sempre di più. Gli abiti che scartiamo perché troppo usati e straccioni, li ritiriamo e li sostituiamo con quelli appena sballati. Formiamo almeno tre enormi sacchi pieni da portare all’ultimo anello della catena: la gente dello slum. Ho sempre saputo che è un’impresa difficile e pericolosa ma la vicinanza di Dina mi rassicura. Lei non si tira mai indietro e, quando mi vede rallentare per fatica e demotivazione, tira fuori il sorriso che le accende gli occhioni e mi sprona.
Partiamo quindi in auto alla volta dello slum. E’ indubbiamente un lavoro da fare con l’aiuto della gente del posto e senza improvvisazione. La corsa all’accaparramento di qualsiasi oggetto proveniente da noi è violenta e squallida. Ci troviamo in mezzo ad una folla assetata di tutto. Ci strappano qualsiasi cosa abbiamo in mano senza rispettare nessuna precedenza e nessun criterio. C’è chi se ne va con cinque pezzi e chi resta senza nulla. Forse è il caso di ricordare che sto parlando di capi di vestiario di decima mano, non di cibo o di qualche bene prezioso indispensabile per la sopravvivenza. Parlo di stracci usati.
Eppure la corsa all’arraffamento scatena i peggiori comportamenti e io mi ritrovo a schiaffeggiare mani che tentano di strapparmi la maglietta fino a graffiarmi con le unghie. Sono donne quelle che ho davanti, con gli occhi spiritati e i capelli tutti arruffati. Sono persone a cui la sorte ha riservato la miseria e la vita di strada. Ognuna di queste donne ha un libro da scrivere di violenza e abusi subiti dalla nascita fino ad oggi. E io di fronte a loro mi ritrovo infastidita e disorientata. Non le sopporto, sono maleducate e si fanno del male a vicenda. Tutto questo accade con Dina che non fiata e mi resta accanto. Grazie Dina per non avermi giudicata male quando mi è scappata qualche sonora principesca imprecazione.
Termina male la distribuzione dei beni allo slum perché più di qualcuno resta a mani vuote e ci guarda in attesa della magia, come se dal cilindro dovesse spuntare il coniglio. Molto spesso ho desiderato avere le doti di un mago in questo paese così pieno di contrasti e di contraddizioni.
Io e Dina siamo stravolte e ci avviamo verso l’auto. La mattina di questo sabato è a metà ma noi siamo pronte per andarcene a letto. Non ho raccontato infatti che prima di arrivare allo slum il nostro accompagnatore, un signore indiano simpatico e gentile che lavora in qualche modo per Care&Share, ci porta a visitare la scuola per i bambini dello slum.
Non c’è solo l’orfanotrofio di Daddy’s Home e quello di Butterly Hill seguito da Care&Share, ci sono altre strutture in giro per Vijayawada e zone limitrofe. C’è quella per i disabili, c’è quella delle ragazze e ci sono tante piccole scuole che danno qualche ora di riparo ai bambini che nascono e crescono nelle zone più misere della città. Sono bambini che non andrebbero mai a scuola se non ci fossero queste piccole stanzette ricavate in immobili fatiscenti, arredate con qualche banco e una lavagna al muro. Qui arriva ogni giorno la razione di latte munto dalle bufale della nostra stalla. Qui ogni mattina è possibile fare la conta dei bambini e capire se qualcuno manca. In tal caso si cerca la famiglia e soprattutto il motivo dell’assenza quando questa si prolunga oltre un certo numero di giorni. I bambini spariscono in India, per tanti strani motivi.
Così in quest’aula piena di faccine scure spettinate e vestite di straccetti sgualciti ci arriviamo proprio il sabato mattina presto. Giorno del bagnetto. Ecco cosa possono avere i bambini che vengono nella scuola dello slum. Almeno un bagno alla settimana. E così io e Dina li aiutiamo a svestirsi, ad insaponarsi e a sciacquarsi. E’ allora che scopro che molte delle bimbe che stanno aspettando il loro turno non sono femminucce ma sono maschietti. Hanno tutti le codine e sono vestiti da ragazzine, solo quando sono spogliati rivelano la sorpresina. Mi piacerebbe capire perché, e quando lo scoprirò lo scriverò.
Questo sabato mattina è davvero tosto e quando siamo in macchina di ritorno dallo slum dirette verso casa io e Dina non parliamo nemmeno. Mi scorrono in testa tutte le immagini di questa interminabile mezza giornata, come la vita che scorre lungo i bordi delle strade e che osservo dal finestrino dell’auto in corsa. Ho un peso che non mi abbandona e desidero andare sotto quel po’ di acqua che esce dalla doccia, per liberarmi dalla sensazione di disagio che mi si è appiccicata addosso. Ma la giornata non finisce qui e il pomeriggio è in agguato. (leggi “Frida e Madre Teresa” https://wordpress.com/post/pattindia.com/1012).
Leggo le tue parole e sono sempre a Daddy’s Home.
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